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Due pensieri sulla morte: omelia del parroco nel giorno severo e sereno di tutti i morti
02-11-2020 21:29 - SPIRITUALITÀ
Oggi paradossalmente si emargina la morte per due eccessi opposti: o perché la si ritiene un niente, o perché si concepisce tutto come un continuo morire. Questi sono due modi, uguali e contrari, di sfuggire la domanda seria che la morte pone alla vita. È come se gli uomini del nostro tempo fossero in grave imbarazzo nei confronti dell’ultima data del sua vita. Oppure, è come se, tacendo sulla morte, volessero rimediare a una sua impotenza nei confronti di essa. Questa timidezza nell’affrontare la morte mostra il lato debole di una cultura, per altro verso, sicura di sé e talora anche spavalda.
Nell’odierna temperie culturale l’evento della morte ha finito per perdere di rilevanza e, comunque, intorno ad esso s’è creata una vera congiura del silenzio, appena interrotta da alcune voci più preoccupate, che però hanno il merito di tener desto il problema più serio dell’uomo. Una delle voci che interrompe tale equivoco mutismo sulla morte è la teologia cristiana che non smette d’agganciare dialoghi su questo tema con la cultura laica, nel convincimento d’avere qualcosa di importante da ricordarle (cfr. G. Lorizio, Mistero della morte come mistero dell’uomo. Una ipotesi di confronto fra la cultura laica e la teologia, Dehoniane, Napoli 1982).
La società di oggi espelle il più possibile la morte dai suoi interessi: la scomparsa di un individuo non intacca più la sua continuità di essere, di pensare e di operare. È vistosa la rimozione della morte o, come è stata anche chiamata, la sua «tabuizzazione» (Geoffrey Gorer): questa è indice soprattutto di un nuovo costume della morte e del morire, un nuovo stile del morire: è uno stile fatto di riservatezza se non di reticenza e di vera «privazione» della morte (chi muore non gestisce più la sua morte) (cfr. E. Canetti, La solitudine del morente, Il Mulino, Bologna 19906). L’odierno stile del morire ha ben poco a che fare con l’ars moriendi, che per secoli ha posto il morente al centro del suo estremo atto di vita.
La nostra società scoraggia il pensiero della morte sia al livello dell’adulto che del bambino, sebbene con motivazioni evidentemente diverse. Sulla morte non c’è consenso. Non è univoca la sua visione. Essa è vista culturalmente in prospettive diverse: cattolica, ebraica, orientale, ecc. Ed è vissuta differentemente anche dal punto di vista psicologico: si parla di morte sfidata, di morte desiderata, di morte curata, di morte elaborata.
2. Interpretazione cristiana della morte

2. L’icona dello “Stabat Mater”, interpretazione della morte dell’uomo. Dentro una cultura che sfugge all’idea di morte, la traduce in tabù sconveniente a tutti i livelli, la sconsacra, la circoscrive diabolicamente nell’ambito dell’inesistenza, la riduce a una probabilità o a ricorrenza statistica, il cristianesimo ha da mostrare, oltre al Crocifisso, anche l’icona dello «Stabat Mater» (cfr. F. Gianfranceschi, Svelare la morte, Rusconi, Milano 1979, pp. 34-46). Ma, in concreto, dopo aver detto che il cristianesimo ritiene importante e inevitabile il tema della morte, che interpretazione ne dà? Maria è creatura di mistero anche perché è la madre del Morente per eccellenza, di colui che è disceso nella morte per esplorarla e cambiarla, dall’interno. La morte non è un “problema”: la morte è un mistero, e perciò ci occorre Cristo per poterla decifrare e oltrepassare. Per lo stesso motivo Maria entra nella lettura e nella soluzione del nodo della morte: la sua partecipazione al mistero di Cristo, in concreto alla lotta da Cristo sostenuta per vincere la morte, la rende in grado di stare vicino alla nostra morte, come è stata vicina alla morte di colui che ha ingoiato la morte nella sua vittoria pasquale (cfr. 1 Cor 15,54).
Maria sotto la croce c’insegna non solo virtù, ma criteri esistenziali e leggi di storia della salvezza: 1) il coraggio: non si fugge di fronte all’«ultimo nemico» (1 Cor 15,26); 2) la fedeltà: non si abbandona nessun uomo, e meno ancora un figlio, nel momento terminale; 3) la fede: Maria non arretra dinanzi alla situazione-limite della morte perché non è la fine di tutto; 4) la coerenza: negando la morte, si rinnega il senso della vita e quanto s’è compiuto in termini di liberazione e di promozione: Maria non nega la morte, ma la guarda in faccia, soprattutto quando muore suo Figlio, il Vivente; 5) la serietà: sotto la croce Maria non discute, ma affida al silenzio l’esperienza di testimonianza resa alla morte del Figlio, con quanto per lei significa; 6) la pazienza: sotto la croce Maria non recrimina e non contesta i crocifissori del Figlio; 7) il paradosso: nel cuore dell’Ora la Dolorosa propone il perdono come principio di vita.
In più. Dinanzi al disprezzo della morte e dei morti, che oggi constatiamo, l’icona della «Pietà», con l’abbraccio di Maria al Figlio morto, insegna alla nostra epoca un amore oltre la morte stessa: Maria incoraggia a ricostruire una civiltà della compassione e ad attivare il principio della misericordia nella vita della comunità degli uomini.
Fonte: Michele Giulio Masciarelli